L’Ospite imprevisto

L’additivo colora, conserva e (anche se poco) avvelena. Come evitarlo?

Bere una bibita, mangiare frutta e verdura, gustarsi un gelato o un ghiacciolo. Questi tre gesti che appaiono non solo innocui, ma in qualche modo salutari, nascondono invece potenziali insidie per il benessere. A partire da quelle più immediate, di ritrovarsi con un’orticaria o una congestione nasale, a causa di qualche colorante o conservante. Succede sempre più spesso, è stato detto al recente congresso nazionale della Società italiana di allergologia, asma e immunologia clinica. «Ogni italiano, anziani e bambini compresi, può ingerire fino a un chilo di additivi alimentari l’anno: oltre 3mila sostanze diverse, in grado di scatenare reazioni simili a un’allergia», spiega Oliviero Rossi, immuno-allergologo all’azienda ospedaliera universitaria Careggi (Firenze) e membro del comitato esecutivo della Siaaic. Ma evitiamo confusioni: le reazioni a queste sostanze, nel 90-95% dei casi, dipendono da intolleranze o pseudoallergie, non da allergie vere e proprie. «Pur provocando sintomi simili a quelli allergici, non inducono una reazione immunologica, con conseguente produzione degli anticorpi tipici delle allergie (anticorpi IgE), ma un aumento della liberazione d’istamina in alcune cellule», spiega Rossi.

DELITTO AL RISTORANTE CINESE

È caccia aperta al colorante e al conservante, dunque. Tra queste sostanze, aggiunte a moltissimi cibi industriali, ci sono: la tetrazina (E102), un colorante giallo impiegato per bevande analcoliche, caramelle, gelati, prodotti dolciari in genere, sciroppi, surimi e senape; il carminio (E 120 o cocciniglia rossa) e il rosso cocciniglia A (E124), usati in yogurt, gelatine, ketchup e in alcune bevande, come il bitter; il blu brillante (133), aggiunto spesso ai piselli in scatola, ai prodotti caseari, a dolci e bibite. «Nei soggetti predisposti, questi coloranti possono provocare eruzioni cutanee, congestione nasale, orticaria, in rari casi anche l’asma. Il giallo tramonto o giallo arancia (E110), addizionato a bibite, sciroppi, dolci, zuppe pronte, gelati, ghiaccioli, marmellate, può indurre angioedemi delle mucose, nausea, vomito», osserva Rossi. Analoghe le reazioni da intolleranza ai conservanti. «I parabeni (E 214, E219), come l’acido para-idrossi-benzoico (acido salicilico, E210), utilizzati come antimicotici e antibatterici, nei soggetti che soffrono di asma, orticaria, eczemi possono mantenere e/o riacutizzare i sintomi. E in alcuni casi, provocare disturbi gastrointestinali». Ben noti sono gli effetti del glutammato monosodico (E620, E623), un esaltatore di sapidità presente soprattutto nei dadi da brodo e in molti cibi in scatola, nonché ampiamente utilizzato nella cucina orientale; da qui la definizione di “sindrome da ristorante cinese” per quell’insieme di sintomi che la sostanza scatena, come cefalea, senso di oppressione toracica, vertigini, sudorazione profusa, tachicardia, stanchezza generalizzata.

SOLO TRE I VERI TEST

Verrebbe voglia di digiunare. Ma per prevenire lo sviluppo di eventuali intolleranze, spesso basta variare l’alimentazione e privilegiare i cibi freschi. «In particolare la frutta e la verdura che, per la ricchezza di fibre e antiossidanti, contrastano le intolleranze. Per prevenire le reazioni quando il problema è già presente, occorre evitare tassativamente gli alimenti che contengono le sostanze incriminate (precotti, confezionati, salse...), leggendo le etichette», dice Rossi. Accorgimenti ancora più importanti nella cucina per i piccoli. «Massima attenzione per quei bambini che, fin dalla prima infanzia, soffrono di asma bronchiale, dermatite atopica e orticaria: additivi e conservanti possono aggravare i sintomi». Inutile, invece, cercare l’intolleranza specifica con esami inappropriati o non validati da trial scientifici. «Meglio diffidare della generica denominazione “test per le intolleranze alimentari”. Sono basati su risultati non riproducibili, e quindi non attendibili. In alcuni casi rischiano di essere addirittura dannosi, poiché possono ritardare la diagnosi corretta e la relativa terapia. Spesso infatti evidenziano presunte allergie o intolleranze a molteplici alimenti, sulla base delle quali vengono prescritte diete approssimative, talora prive del necessario apporto calorico e vitaminico. Gli unici test validi sono: il Breath test per la lattasi (reazioni al latte e derivati); il dosaggio degli anticorpi anti-componenti del glutine, per la celiachia; il patch test per la sensibilizzazione al nickel, un metallo presente in molti alimenti».

AVVISO IN GRAVIDANZA

Certo, frutta e verdura fresche e cibi preparati con le proprie mani forniscono nutrienti essenziali per il benessere, e limitano le intolleranze ad additivi e conservanti. Ma espongono a un rischio più subdolo, che da oltre un ventennio preoccupa la comunità scientifica e le associazioni ambientaliste (legambiente.it): l’assunzione, attraverso il cibo, il contatto o l’inalazione, di interferenti endocrini. Parliamo di un nutrito gruppo di inquinanti presenti nei prodotti più svariati, come pesticidi, antiparassitari, alimenti trattati, vernici industriali (iss.it/inte). Gli interferenti endocrini possono compromettere il sistema ormonale; sono associati al considerevole aumento negli ultimi anni dei problemi riproduttivi maschili e femminili e di alcune malattie (endometriosi, diabete, obesità e cancro del seno, dei testicoli e della prostata). «Sono un gruppo vasto ed eterogeneo di sostanze appartenenti a famiglie chimiche diverse (composti fenolici e organostannici, diossine, metalli pesanti, ftalati, policlorobifenili), che si comportano con varie modalità: alcuni, per esempio, imitano la struttura degli ormoni incrementandone, quindi, gli effetti; altri ne neutralizzano l’azione, saturandone i recettori. Altri ancora ne impediscono la sintesi o la degradazione. I loro bersagli principali sono gli ormoni sessuali e la tiroide; per questo colpiscono soprattutto la salute riproduttiva e lo sviluppo», dice Alberto Mantovani, specialista in Tossicologia e dirigente di ricerca all’Istituto superiore di sanità. Le diossine, derivate dai prodotti di combustione (per esempio di acciaierie o di fabbriche dove si usa e si produce plastica), possono accumularsi nella componente grassa degli alimenti contaminati (latticini, pesci, pelle del pollame), e si comportano come estrogeni, antiestrogeni, androgeni o antiandrogeni a seconda del tessuto esposto alla contaminazione.

La vulnerabilità dell’organismo agli interferenti endocrini dipende dal sesso, dall’età ma anche dallo stile di vita e dall’alimentazione. È l’infanzia a preoccupare maggiormente gli scienziati. «Studi recenti hanno associato l’esposizione al dietil-esil-ftalato (DEHP) e al bisfenolo A (BPA), due tra gli interferenti endocrini più studiati e tuttora utilizzati in alcune plastiche, a patologie infantili quali la pubertà precoce, i disturbi della crescita e l’obesità. A loro volta, queste alterazioni nelle fasi dello sviluppo possono favorire il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari in età adulta», dice Mantovani. «L’esposizione del feto a interferenti endocrini mediante l’alimentazione e l’ambiente materni pone una premessa a danni ai sistemi riproduttivo, nervoso e immunitario, che si possono rivelare anche in età adulta». Una risposta a questi dubbi arriverà probabilmente a fine 2017, quando saranno disponibili i primi risultati dello studio nazionale Life-Persuaded, condotto sotto l’egida dell’Istituto superiore di sanità su oltre duemila mamme e bambini, per scoprire i rischi correlati all’esposizione specifica al BPA e al DEHP (iss.it/lifp). Un altro progetto dell’Iss, Life Edesia (iss.it/life), sta cercando di identificare sostanze più sicure che possano sostituire questi composti “problematici”.

POCHI MA CORIACEI

Oltre a BPA e DEHP, altri interferenti endocrini insidiosi sono chiamati in termini tecnici PBT (persistenti, bioaccumulabili e tossici). Sono “osservati speciali” perché, nonostante i divieti di produzione e utilizzo nei Paesi industrializzati, hanno ancora una considerevole diffusione ambientale ereditata dal passato, a causa della loro resistenza alla degradazione. E anche se sono presenti in piccole quantità negli alimenti, tendono ad accumularsi nei tessuti. «I più regolamentati tra questi composti sono: mercurio, bifenili policlorurati, diossine e furani, benzo(a) pirene, esaclorobenzene, piombo tetraetile, octaclorostirene, e pesticidi come mirex, dieldrina, aldrina, clordano, toxafene. La loro tossicità è alta anche a basse dosi, perché restando a lungo nell’organismo possono esercitare l’azione in modo cronico», dice Roberto Fanelli, responsabile del Dipartimento ambiente e salute dell’Istituto Mario Negri di Milano.

Come difendersi nel modo più efficace possibile? «Anzitutto niente allarmismi», rassicura Fanelli. «Le quantità di interferenti endocrini assunte attraverso gli alimenti e l’ambiente sono in genere troppo basse per indurre effetti ormonali. Tuttavia, queste sostanze sono numerose e possono essere assimilate per vie diverse, dando vita a inaspettati “effetti cocktail”. Perciò per tutelarsi è bene non eccedere nel mangiare, e soprattutto variare: non consumare troppo spesso gli stessi alimenti e non acquistare sempre la stessa marca di un prodotto. Pochi i latticini e le carni rosse, in particolare quella suina. «I composti PBT tendono ad accumularsi nei grassi animali. Limitarli nella dieta contrasta sia il rischio cardiovascolare sia le possibili “perturbazioni” ormonali», precisa Fanelli.

IL FALSO MITO DEL KM ZERO

Nel nostro Paese le Asl assicurano il controllo dei pesticidi: è buona norma, dunque, leggere le etichette, preferendo i prodotti Made in Italy, che siano venduti nei mercati rionali o dalla grande distribuzione. Negli alimenti di provenienza esotica o dubbia, potrebbero essere presenti pesticidi, erbicidi e antiparassitari, tra i quali gli interferenti endocrini da tempo riconosciuti dall’Ue, come atrazina, linuron, imazalil, procimidone. «Per questo, è opportuno diffidare dei cibi che possono sfuggire ai controlli e/o privi di etichettatura: no ai banchi improvvisati sul ciglio della strada. Se si compra direttamente dal produttore, a km zero, è opportuno informarsi dove produce e come coltiva», ammonisce Mantovani. «Comunque, è sempre meglio sbucciare la frutta e lavare con molta cura le verdure». Non è facile rimuovere i residui superficiali dei pesticidi con il normale lavaggio: alcune di queste sostanze sono idrosolubili, altre liposolubili. Nel dubbio, è utile sciacquare la frutta e la verdura con il bicarbonato, che aiuta a modificare il pH degli eventuali residui chimici rendendoli idrosolubili; poi, passarla sotto l’acqua corrente. In alternativa, si può utilizzare l’argilla verde, altrettanto efficace del bicarbonato.

Diversi contaminanti possono essere ingeriti anche attraverso il pesce. «Per esempio il mercurio e le diossine, provenienti da scarichi industriali ed erosione dei terreni, finiscono in mare ed entrano nella catena alimentare, soprattutto nei pesci grassi e nei predatori di grossa taglia», osserva Mantovani. Nei molluschi e nei crostacei, che filtrano i sedimenti del fondo, possono concentrarsi composti persistenti quali alchilfenoli e tributilstagno (TBT), utilizzato tra l’altro come anti-muffa nelle vernici. Come tutelarsi? Risponde lo specialista: «Basta variare il tipo di pesce, non eccedere con quelli di grossa pezzatura (tonno, anche in scatola, spada e palombo) e lavare bene molluschi e crostacei. Sbagliato però preoccuparsi troppo: il pesce destinato al consumo e all’industria alimentare viene controllato per accertare che eventuali residui risultino al di sotto dei limiti accettabili, fissati per legge». Infine, anche per le specie ittiche va seguito il criterio della stagionalità, per approfittare al massimo delle qualità nutrizionali e organolettiche.

PENTOLE & C., MANEGGIARE CON CURA

Anche le stoviglie usate per cucinare, o i contenitori che proteggono i cibi durante la conservazione, possono rilasciare sostanze tossiche, come ftalati, bisfenoli e perfluorati, ritenuti da tempo interferenti endocrini. Norme generiche di difesa: no ai recipienti in plastica usurati o riciclati se monouso; no alle pellicole non adatte al contatto con gli alimenti (possono liberare ftalati) e alle pentole di dubbia provenienza (possono rilasciare metalli pesanti). Per la cottura, meglio le stoviglie in acciaio, vetro, porcellana vetrificata o coccio. «Le pentole in teflon, materiale dalla cattiva fama per la presenza in passato di acido perfluoroottanico (PFOA), sono da anni sicure. Devono però essere perfettamente integre, per evitare le carbonizzazioni, che possono portare alla formazione di sostanze cancerogene (idrocarburi policiclici aromatici, IPA). Non vanno lavate con detergenti o spugne abrasive: meglio usare la lavastoviglie a una temperatura non superiore ai 50°C. E sostituirle appena rivelano scalfiture», spiega Alberto Mantovani.

Fonte: La Repubblica

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