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Tutti i test “bufala” per stabilire un’allergia alimentare o un’intolleranza: la lista redatta dalla Federazione degli Ordini dei Medici
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Esistono test “bufala” per le allergie: sono i più diffusi, venduti (eseguiti) anche in farmacia
Chi non ha mai pensato di aver qualche problema di intolleranza o allergia con un cibo particolare alzi la mano. La sensazione di essere poco in sintonia con un ingrediente alimentare o una categoria di prodotti sta diventando una “moda”. È quasi un modo per trovare una soluzione a un disturbo generico, all’aumento di peso (correlato all’allergia non si sa bene come), insomma un sistema per dare una risposta anche rapida a un problema di salute. Basta eliminare dalla dieta la categoria alimentare incriminata e si inizia a stare meglio. A favorire questo atteggiamento, sugli scaffali dei supermercati si trova ormai un ricco assortimento di prodotti “senza lattosio”, “senza glutine”, “senza grassi”, “senza zuccheri”. Anche in farmacia e in rete sono sempre più numerosi presunti test in grado di stabilire rapidamente e con precisione la presenza di un’allergia o un’intolleranza alimentare. La maggior parte di questi test non ha validità scientifica, ma si confondono con quelli scientificamente utilizzati dagli specialisti in allergologia, anche perché in alcuni casi sono collegati a analisi del sangue o altri tipi di strumentazione sofisticate che traggono in inganno.
«La maggior parte delle persone non distingue un’allergia da un’intolleranza e questa differenza spesso è poco chiara anche al personale sanitario – commenta Marina Russello, specialista in allergologia -. Un’allergia si manifesta anche quando minime quantità di un alimento scatenano reazioni di gravità variabile, da reazioni esclusivamente oro labiali fino a reazioni generalizzate molto gravi, in (pochi) casi estremi anche anafilassi con esito mortale. È una reazione causata da un’attività anomala del sistema immunitario mediata spesso dalla produzione di anticorpi IgE. Gli allergeni più spesso responsabili sono: pesca, crostacei, arachidi, frutta a guscio nella popolazione adulta e uova, pesce, latte e derivati nella prima infanzia. L’intolleranza vera a un alimento non innesca una risposta del sistema immunitario perché è dovuta al difetto di un enzima presente nel nostro organismo, oppure è legata a molteplici altri fattori o ad alcune caratteristiche dell’alimento stesso».
Per esempio l’intolleranza al lattosio, è dovuta alla scarsa presenza nell’organismo dell’enzima che lo degrada e il latte indigerito causa gonfiore, dolore addominale o coliche. Spesso una cattiva alimentazione, il reflusso, la gastrite danno origine a un insieme di sintomi che vengono poi attribuiti erroneamente a intolleranze inesistenti. C’è anche il caso di pazienti che possono avere una ipersensibilità al glutine non celiaca (avviene nei casi in cui un individuo ha tutti i sintomi della malattia celiaca, ma non ha la celiachia).
Per fare un po’ di ordine, la FNOMCeO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri) lo scorso ottobre ha pubblicato un documento (scritto in collaborazione con le principali associazioni di medici allergologi, come SIAIP, AAITO e SIAAIC) per illustrare i percorsi diagnostici utilizzati dall’allergologo, elencando i sistemi inefficaci, che potremmo definire vere e proprie “bufale”. «La percezione di allergia alimentare nella popolazione è di circa il 20% mentre l’incidenza reale del fenomeno interessa il 4,5% delle persone adulte e fino al 10% circa della popolazione pediatrica». Innanzitutto è importante chiarire la differenza tra allergia e intolleranza, visto che spesso quest’ultima viene citata a sproposito. Entrambe rientrano tra le reazioni avverse da alimenti, ossia «ogni manifestazione indesiderata e imprevista conseguente all’assunzione di un alimento».
Secondo il documento FNOMCeO i test senza alcuna validità scientifica sono molteplici. L’elenco comincia con il test di provocazione-neutralizzazione intradermico e sublinguale; i test elettrodermici come Vega test, Sarm test, Biostrenght test; i test kinesiologici, la biorisonanza, l’iridologia, l’analisi del capello, il pulse test, lo strenght test, il riflesso cardio auricolare, il test citotossico e il dosaggio di IgG4. Per comprendere meglio come mai e in che modo si diffondono questi test abbiamo rivolto alcune domande a Marina Russello, specialista in Allergologia e immunologia clinica dell’Ospedale Sant’Anna di Como: «I Test alternativi sono numerosissimi e ogni giorno ne compaiono di nuovi. Basta guardare su internet. I più famosi sono però cinque, i primi dal punto di vista storico: biorisonanza, vega test, dria test, il test sul capello e la citotossicità sul sangue». In molti casi il paziente arriva ad autodiagnosticarsi un’allergia o intolleranza non attraverso percorsi corretti, ma con il passaparola o informazioni trovate in Internet: «le persone con alcuni sintomi gastrointestinali spesso pensano che i loro problemi siano collegati a intolleranze e sperano di poterli risolvere modificando l’alimentazione». Avere accesso a questi test è abbastanza facile: si trovano in farmacia o ci si può rivolgere ai laboratori privati.
I motivi per cui la gente ricorre a questi esami non sono di tipo economico, ma probabilmente sono dovuti alla semplicità della procedura che non comporta attese ed è svicolata dalle altre incombenze di una visita specialistica. «Il costo dei testi reperibili in farmacia – spiega Russello – varia dai 70 euro per quello sui capelli ai 250/300 per la biorisonanza e il vega test. L’interpretazione dei risultati viene eseguita direttamente dal laboratorio che si occupa anche dell’analisi, dal farmacista o dal medico/biologo o omeopata. Il paziente spesso non viene visitato per cui nessuno è a conoscenza della sua storia clinica. La procedura diagnostica corretta da seguire fornita dal nostro SSN in ambito Ospedaliero, costa al massimo 200-250 euro, e prevede come primo passo la visita dallo specialista, e solo dopo l’esecuzione dei test cutanei ed eventuali esami immunologici che si rendono necessari». L’allergologo, oltre a valutare la storia del paziente, in genere procede con un test semplice e veloce. «Si chiama Prick Test, dura 15 minuti e inizia a dare un’idea sull’eventuale presenza di allergie gravi. Questo test prevede l’applicazione dei vari allergeni sull’avambraccio, che vengono fatti penetrare nella cute attraverso piccolissime punture per verificare reazioni allergiche di tipo “immediato». In caso di positività si può affinare la ricerca attraverso test “mirati “sul sangue o addirittura con scatenamento orale con l’alimento sospetto. Quest’ultimo esame viene eseguito soprattutto sui bambini per capire se un alimento può essere assunto o no». È lecito quindi ipotizzare che la scarsa di conoscenza dell’argomento da parte delle persone abbinata alle spinte commerciali delle aziende produttrici dei test a rendere molto popolari esami inattendibili dal punto di vista scientifico.
I test alternativi possono essere pericolosi? «In modo indiretto: non hanno rischi durante l’esecuzione, ma di sicuro impediscono a un paziente di scoprire il vero problema. Non diagnosticare allergie alimentari è grave perché in alcuni casi potrebbe mettere a rischio la vita dell’individuo. In altre situazioni si potrebbe correre il rischio di un ritardo diagnostico o di scambiare patologie gravi come presunte intolleranze. Sulla base di una diagnosi errata si può creare inoltre dipendenza da regimi alimentari che escludano alcuni cibi senza alcun motivo valido, con limitazioni di tipo psicologico e nella vita sociale. C’è poi il grave rischio di malnutrizione quando test inaffidabili sono eseguiti in età pediatrica ed evolutiva. C’è un ultimo elemento da considerare – mette in guardia Russello – questi test sono poco attendibili anche perché non sono riproducibili: significa che se ripetuti possono dare risultati differenti anche nello stesso soggetto».
Elenco dei test che l’Ordine dei medici considera privi di validità scientifica
Test di provocazione-neutralizzazione intradermico: l’allergene viene somministrato per via intradermica, si attendono 10-12 minuti per valutare la comparsa di sintomi. I sintomi riprodotti non sono specifici né per gravità o tipologia.
Test kinesiologico: il paziente afferra con la mano la bottiglia di vetro che contiene l’alimento da testare, mentre con l’altra mano spinge contro quella dell’esaminatore. La presunta perdita di forza nell’opporre resistenza viene vista come segnale della presenza di un’allergia nei confronti del contenuto della bottiglia. La versione moderna di questo test si chiama Dria: la forza viene misurata a livello di quadricipite, legando alla caviglia del paziente una cinghia collegata al peso da sollevare e al pc.
Vega Test: si basa sull’applicazione di corrente elettrica in punti specifici del corpo che corrispondono ai punti dell’agopuntura nella medicina cinese. L’apparecchio ha due elettrodi: uno applicato sulla cute, l’altro alla macchinetta.
Biorisonanza: si basa sulla convinzione che il corpo emetta onde elettromagnetiche “buone” o “cattive”, misurabili con un determinato strumento che poi le rimanderebbe al paziente in versione “purificata”.
Il Test del capello trova l’unica applicazione scientifica nella ricerca di eventuali droghe
Test citotossico: al sangue o alle sospensioni di globuli bianchi viene aggiunto uno specificio allergene che – in caso di allergia – dovrebbe modificare le cellule, fino alla loro lisi. Il metodo non ha mai trovato validazione scientifica e non è riconosciuto dalle Società Scientifiche di Allergologia nazionali e internazionali.
Fonte: Il Fatto Alimentare
L’Ospite imprevisto
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L’additivo colora, conserva e (anche se poco) avvelena. Come evitarlo?
Bere una bibita, mangiare frutta e verdura, gustarsi un gelato o un ghiacciolo. Questi tre gesti che appaiono non solo innocui, ma in qualche modo salutari, nascondono invece potenziali insidie per il benessere. A partire da quelle più immediate, di ritrovarsi con un’orticaria o una congestione nasale, a causa di qualche colorante o conservante. Succede sempre più spesso, è stato detto al recente congresso nazionale della Società italiana di allergologia, asma e immunologia clinica. «Ogni italiano, anziani e bambini compresi, può ingerire fino a un chilo di additivi alimentari l’anno: oltre 3mila sostanze diverse, in grado di scatenare reazioni simili a un’allergia», spiega Oliviero Rossi, immuno-allergologo all’azienda ospedaliera universitaria Careggi (Firenze) e membro del comitato esecutivo della Siaaic. Ma evitiamo confusioni: le reazioni a queste sostanze, nel 90-95% dei casi, dipendono da intolleranze o pseudoallergie, non da allergie vere e proprie. «Pur provocando sintomi simili a quelli allergici, non inducono una reazione immunologica, con conseguente produzione degli anticorpi tipici delle allergie (anticorpi IgE), ma un aumento della liberazione d’istamina in alcune cellule», spiega Rossi.
DELITTO AL RISTORANTE CINESE
È caccia aperta al colorante e al conservante, dunque. Tra queste sostanze, aggiunte a moltissimi cibi industriali, ci sono: la tetrazina (E102), un colorante giallo impiegato per bevande analcoliche, caramelle, gelati, prodotti dolciari in genere, sciroppi, surimi e senape; il carminio (E 120 o cocciniglia rossa) e il rosso cocciniglia A (E124), usati in yogurt, gelatine, ketchup e in alcune bevande, come il bitter; il blu brillante (133), aggiunto spesso ai piselli in scatola, ai prodotti caseari, a dolci e bibite. «Nei soggetti predisposti, questi coloranti possono provocare eruzioni cutanee, congestione nasale, orticaria, in rari casi anche l’asma. Il giallo tramonto o giallo arancia (E110), addizionato a bibite, sciroppi, dolci, zuppe pronte, gelati, ghiaccioli, marmellate, può indurre angioedemi delle mucose, nausea, vomito», osserva Rossi. Analoghe le reazioni da intolleranza ai conservanti. «I parabeni (E 214, E219), come l’acido para-idrossi-benzoico (acido salicilico, E210), utilizzati come antimicotici e antibatterici, nei soggetti che soffrono di asma, orticaria, eczemi possono mantenere e/o riacutizzare i sintomi. E in alcuni casi, provocare disturbi gastrointestinali». Ben noti sono gli effetti del glutammato monosodico (E620, E623), un esaltatore di sapidità presente soprattutto nei dadi da brodo e in molti cibi in scatola, nonché ampiamente utilizzato nella cucina orientale; da qui la definizione di “sindrome da ristorante cinese” per quell’insieme di sintomi che la sostanza scatena, come cefalea, senso di oppressione toracica, vertigini, sudorazione profusa, tachicardia, stanchezza generalizzata.
SOLO TRE I VERI TEST
Verrebbe voglia di digiunare. Ma per prevenire lo sviluppo di eventuali intolleranze, spesso basta variare l’alimentazione e privilegiare i cibi freschi. «In particolare la frutta e la verdura che, per la ricchezza di fibre e antiossidanti, contrastano le intolleranze. Per prevenire le reazioni quando il problema è già presente, occorre evitare tassativamente gli alimenti che contengono le sostanze incriminate (precotti, confezionati, salse...), leggendo le etichette», dice Rossi. Accorgimenti ancora più importanti nella cucina per i piccoli. «Massima attenzione per quei bambini che, fin dalla prima infanzia, soffrono di asma bronchiale, dermatite atopica e orticaria: additivi e conservanti possono aggravare i sintomi». Inutile, invece, cercare l’intolleranza specifica con esami inappropriati o non validati da trial scientifici. «Meglio diffidare della generica denominazione “test per le intolleranze alimentari”. Sono basati su risultati non riproducibili, e quindi non attendibili. In alcuni casi rischiano di essere addirittura dannosi, poiché possono ritardare la diagnosi corretta e la relativa terapia. Spesso infatti evidenziano presunte allergie o intolleranze a molteplici alimenti, sulla base delle quali vengono prescritte diete approssimative, talora prive del necessario apporto calorico e vitaminico. Gli unici test validi sono: il Breath test per la lattasi (reazioni al latte e derivati); il dosaggio degli anticorpi anti-componenti del glutine, per la celiachia; il patch test per la sensibilizzazione al nickel, un metallo presente in molti alimenti».
AVVISO IN GRAVIDANZA
Certo, frutta e verdura fresche e cibi preparati con le proprie mani forniscono nutrienti essenziali per il benessere, e limitano le intolleranze ad additivi e conservanti. Ma espongono a un rischio più subdolo, che da oltre un ventennio preoccupa la comunità scientifica e le associazioni ambientaliste (legambiente.it): l’assunzione, attraverso il cibo, il contatto o l’inalazione, di interferenti endocrini. Parliamo di un nutrito gruppo di inquinanti presenti nei prodotti più svariati, come pesticidi, antiparassitari, alimenti trattati, vernici industriali (iss.it/inte). Gli interferenti endocrini possono compromettere il sistema ormonale; sono associati al considerevole aumento negli ultimi anni dei problemi riproduttivi maschili e femminili e di alcune malattie (endometriosi, diabete, obesità e cancro del seno, dei testicoli e della prostata). «Sono un gruppo vasto ed eterogeneo di sostanze appartenenti a famiglie chimiche diverse (composti fenolici e organostannici, diossine, metalli pesanti, ftalati, policlorobifenili), che si comportano con varie modalità: alcuni, per esempio, imitano la struttura degli ormoni incrementandone, quindi, gli effetti; altri ne neutralizzano l’azione, saturandone i recettori. Altri ancora ne impediscono la sintesi o la degradazione. I loro bersagli principali sono gli ormoni sessuali e la tiroide; per questo colpiscono soprattutto la salute riproduttiva e lo sviluppo», dice Alberto Mantovani, specialista in Tossicologia e dirigente di ricerca all’Istituto superiore di sanità. Le diossine, derivate dai prodotti di combustione (per esempio di acciaierie o di fabbriche dove si usa e si produce plastica), possono accumularsi nella componente grassa degli alimenti contaminati (latticini, pesci, pelle del pollame), e si comportano come estrogeni, antiestrogeni, androgeni o antiandrogeni a seconda del tessuto esposto alla contaminazione.
La vulnerabilità dell’organismo agli interferenti endocrini dipende dal sesso, dall’età ma anche dallo stile di vita e dall’alimentazione. È l’infanzia a preoccupare maggiormente gli scienziati. «Studi recenti hanno associato l’esposizione al dietil-esil-ftalato (DEHP) e al bisfenolo A (BPA), due tra gli interferenti endocrini più studiati e tuttora utilizzati in alcune plastiche, a patologie infantili quali la pubertà precoce, i disturbi della crescita e l’obesità. A loro volta, queste alterazioni nelle fasi dello sviluppo possono favorire il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari in età adulta», dice Mantovani. «L’esposizione del feto a interferenti endocrini mediante l’alimentazione e l’ambiente materni pone una premessa a danni ai sistemi riproduttivo, nervoso e immunitario, che si possono rivelare anche in età adulta». Una risposta a questi dubbi arriverà probabilmente a fine 2017, quando saranno disponibili i primi risultati dello studio nazionale Life-Persuaded, condotto sotto l’egida dell’Istituto superiore di sanità su oltre duemila mamme e bambini, per scoprire i rischi correlati all’esposizione specifica al BPA e al DEHP (iss.it/lifp). Un altro progetto dell’Iss, Life Edesia (iss.it/life), sta cercando di identificare sostanze più sicure che possano sostituire questi composti “problematici”.
POCHI MA CORIACEI
Oltre a BPA e DEHP, altri interferenti endocrini insidiosi sono chiamati in termini tecnici PBT (persistenti, bioaccumulabili e tossici). Sono “osservati speciali” perché, nonostante i divieti di produzione e utilizzo nei Paesi industrializzati, hanno ancora una considerevole diffusione ambientale ereditata dal passato, a causa della loro resistenza alla degradazione. E anche se sono presenti in piccole quantità negli alimenti, tendono ad accumularsi nei tessuti. «I più regolamentati tra questi composti sono: mercurio, bifenili policlorurati, diossine e furani, benzo(a) pirene, esaclorobenzene, piombo tetraetile, octaclorostirene, e pesticidi come mirex, dieldrina, aldrina, clordano, toxafene. La loro tossicità è alta anche a basse dosi, perché restando a lungo nell’organismo possono esercitare l’azione in modo cronico», dice Roberto Fanelli, responsabile del Dipartimento ambiente e salute dell’Istituto Mario Negri di Milano.
Come difendersi nel modo più efficace possibile? «Anzitutto niente allarmismi», rassicura Fanelli. «Le quantità di interferenti endocrini assunte attraverso gli alimenti e l’ambiente sono in genere troppo basse per indurre effetti ormonali. Tuttavia, queste sostanze sono numerose e possono essere assimilate per vie diverse, dando vita a inaspettati “effetti cocktail”. Perciò per tutelarsi è bene non eccedere nel mangiare, e soprattutto variare: non consumare troppo spesso gli stessi alimenti e non acquistare sempre la stessa marca di un prodotto. Pochi i latticini e le carni rosse, in particolare quella suina. «I composti PBT tendono ad accumularsi nei grassi animali. Limitarli nella dieta contrasta sia il rischio cardiovascolare sia le possibili “perturbazioni” ormonali», precisa Fanelli.
IL FALSO MITO DEL KM ZERO
Nel nostro Paese le Asl assicurano il controllo dei pesticidi: è buona norma, dunque, leggere le etichette, preferendo i prodotti Made in Italy, che siano venduti nei mercati rionali o dalla grande distribuzione. Negli alimenti di provenienza esotica o dubbia, potrebbero essere presenti pesticidi, erbicidi e antiparassitari, tra i quali gli interferenti endocrini da tempo riconosciuti dall’Ue, come atrazina, linuron, imazalil, procimidone. «Per questo, è opportuno diffidare dei cibi che possono sfuggire ai controlli e/o privi di etichettatura: no ai banchi improvvisati sul ciglio della strada. Se si compra direttamente dal produttore, a km zero, è opportuno informarsi dove produce e come coltiva», ammonisce Mantovani. «Comunque, è sempre meglio sbucciare la frutta e lavare con molta cura le verdure». Non è facile rimuovere i residui superficiali dei pesticidi con il normale lavaggio: alcune di queste sostanze sono idrosolubili, altre liposolubili. Nel dubbio, è utile sciacquare la frutta e la verdura con il bicarbonato, che aiuta a modificare il pH degli eventuali residui chimici rendendoli idrosolubili; poi, passarla sotto l’acqua corrente. In alternativa, si può utilizzare l’argilla verde, altrettanto efficace del bicarbonato.
Diversi contaminanti possono essere ingeriti anche attraverso il pesce. «Per esempio il mercurio e le diossine, provenienti da scarichi industriali ed erosione dei terreni, finiscono in mare ed entrano nella catena alimentare, soprattutto nei pesci grassi e nei predatori di grossa taglia», osserva Mantovani. Nei molluschi e nei crostacei, che filtrano i sedimenti del fondo, possono concentrarsi composti persistenti quali alchilfenoli e tributilstagno (TBT), utilizzato tra l’altro come anti-muffa nelle vernici. Come tutelarsi? Risponde lo specialista: «Basta variare il tipo di pesce, non eccedere con quelli di grossa pezzatura (tonno, anche in scatola, spada e palombo) e lavare bene molluschi e crostacei. Sbagliato però preoccuparsi troppo: il pesce destinato al consumo e all’industria alimentare viene controllato per accertare che eventuali residui risultino al di sotto dei limiti accettabili, fissati per legge». Infine, anche per le specie ittiche va seguito il criterio della stagionalità, per approfittare al massimo delle qualità nutrizionali e organolettiche.
PENTOLE & C., MANEGGIARE CON CURA
Anche le stoviglie usate per cucinare, o i contenitori che proteggono i cibi durante la conservazione, possono rilasciare sostanze tossiche, come ftalati, bisfenoli e perfluorati, ritenuti da tempo interferenti endocrini. Norme generiche di difesa: no ai recipienti in plastica usurati o riciclati se monouso; no alle pellicole non adatte al contatto con gli alimenti (possono liberare ftalati) e alle pentole di dubbia provenienza (possono rilasciare metalli pesanti). Per la cottura, meglio le stoviglie in acciaio, vetro, porcellana vetrificata o coccio. «Le pentole in teflon, materiale dalla cattiva fama per la presenza in passato di acido perfluoroottanico (PFOA), sono da anni sicure. Devono però essere perfettamente integre, per evitare le carbonizzazioni, che possono portare alla formazione di sostanze cancerogene (idrocarburi policiclici aromatici, IPA). Non vanno lavate con detergenti o spugne abrasive: meglio usare la lavastoviglie a una temperatura non superiore ai 50°C. E sostituirle appena rivelano scalfiture», spiega Alberto Mantovani.
Fonte: La Repubblica
I test per le intolleranze alimentari: solo una moda per perdere peso
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Il CREA (Centro di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) sul sito "Sapermangiare" realizzato dall’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) avverte che il sovrappeso non è correlato alle intolleranze alimentari.
A tal proposito vediamo cosa riporta.
Intolleranze alimentari e sovrappeso: c'è un legame?
Negli ultimi anni, parallelamente al dilagare del fenomeno obesità e di altre patologie legate all'alimentazione, si sono diffuse una serie di voci, miti e metodi diagnostici che non hanno fondamento scientifico e non sono peraltro riconosciuti dalla medicina. Intolleranze e sovrappeso sono fenomeni lontani tra di loro e non hanno legami. Al limite, se proprio vogliamo cercare una relazione tra i due, dovremmo propendere per un effetto sulla riduzione del peso, dato che determinando la mancata utilizzazione di un alimento da parte dell'organismo, ne ostacolano l'assorbimento. In ogni caso sono del tutto prive di senso affermazioni come "l'alimento a cui si è intolleranti causa un rallentamento del metabolismo e quindi un aumento di peso" e servono solamente ad arricchire qualcuno a discapito di qualcun altro.
Tutti i test non accreditati per le intolleranze alimentari, infatti, oltre a diagnosticarne alcune che fanno da coreografia, riportano nei pazienti sovrappeso o obesi una intolleranza a latticini e lieviti. Togliendo dalla dieta pane, pasta, formaggi e dolci si tolgono circa 1000 kcal al giorno, alle quali "l'intollerante" rinuncerà, dimagrendo. Potenza della suggestione.
Purtroppo questo succede perché c'è un vuoto di conoscenze e di metodi affidabili per la diagnosi, che invece riveste un ruolo centrale in questo tipo di patologie che favoriscono le speculazioni di pseudo professionisti.
E cosa riportava già prima:
Allergie e intolleranze: reazioni avverse agli alimenti
Allergie e intolleranze alimentari, meglio definite come reazioni avverse agli alimenti, sono in aumento in Italia e nel mondo occidentale così come lo sono le allergie in generale. In mancanza di dati epidemiologici nazionali dobbiamo riferirci a quelli degli Stati Uniti, che stimano una prevalenza delle allergie alimentari pari al 10% (13% nei bambini e 7% nell’adulto) della popolazione generale. Studi europei stimano invece una percentuale molto più bassa, intorno al 7.5% nei bambini e 2% nell’adulto. Nonostante il continuo aumento di queste patologie, c’è ancora parecchia incertezza sui meccanismi che ne stanno alla base, così come molte incertezze nella diagnosi che viene spesso affidata a metodologie non idonee (esami di fanta-magia). Si aggiunga a questo la crescente credenza popolare, del tutto infondata, che le allergie alimentari siano responsabili di molti fenomeni di sovrappeso. Le allergie alimentari non hanno generalmente nessuna influenza sul peso corporeo, ma se un effetto dobbiamo per forza trovarlo, sarà nel senso di una diminuzione di peso per mancato assorbimento di nutrienti e non certo di un aumento. Tali credenze sono purtroppo supportate da operatori sanitari disonesti e senza scrupoli che, facendosi forza sulla credulità dei pazienti ed affidandosi a fantasiose e coreografiche metodologie diagnostiche propugnano diete inutili e spesso dannose.
I test per le intolleranze alimentari? «Li fanno tutti, ma sono una truffa»
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Dall'esame del capello a quello della forza muscolare: «Nessuna base scientifica»
I medici: sono inutili. In nove casi su dieci l'esito è positivo.
«Non è vero eppure ci credo». Deve essere questo il motto che ogni anno trascina migliaia di persone in farmacie, studi e laboratori d’analisi dove si eseguono test per le intolleranze alimentari. «Inutili, vere truffe», secondo la medicina ufficiale che periodicamente, nel tentativo di stroncare il fenomeno, torna alla carica con editti di condanna. L'ultimo pubblicato su Medical Network, rivista dei medici specialisti ambulatoriali (riuniti nel Sumai).
Eppure la moda è più che mai in auge, mutuata dagli Stati Uniti nel 2000. I due terzi circa degli italiani che si fanno visitare dal dietologo o dal nutrizionista per dimagrire confessano di aver fatto almeno una volta il tricotest (analisi del capello), il vegatest (esame bioenergetico attraverso un apparecchio che misura la reazione ai cibi) o un esame fondato sulla kinesiologia, con il quale fanno stringere in mano ampolline con estratti di sostanze a rischio per osservare eventuale perdita di forza muscolare.
Nel 90% dei casi la risposta è positiva. Si scopre di essere intolleranti sempre a qualcosa. In genere latticini, cereali, frutta secca, salumi. I più calorici. E così il nuovo, presunto intollerante torna a casa determinato a tagliare dalla tavola i cibi incriminati. Giovanni Spera, presidente della SIO (società italiana contro l'obesità), non ha dati numerici ma conferma: «Quasi tutti abboccano, si fanno abbindolare dalla suggestiva teoria secondo cui non si dimagrisce perché si mangia ciò che il nostro corpo rifiuta. Un facile alibi per dire a se stessi che non è colpa nostra».
Su Medical Network un allergologo dell'azienda Asl di Reggio Emilia, Gianluigi Rossi, dopo aver analizzato la letteratura scientifica disponibile conclude: «Emergono con chiarezza l'inconsistenza e le contraddizioni, terminologiche e concettuali, dei sostenitori. Non esiste alcun esame di laboratorio in grado di valutare la presenza di un'allergia o intolleranza prescindendo dalla storia clinica ». Ancora più grave, insiste Rossi, è che le indicazioni dietetiche vengono prescritte per corrispondenza.
Durissima la posizione di Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale: «Sono esami destituiti di ogni fondamento, truffe. Malgrado diverse società scientifiche si siano espresse come noi, la gente non cambia atteggiamento. Le conseguenze sul piano nutrizionale possono essere pericolose».
La popolarità delle intolleranze è alimentata dal passaparola, dai racconti di dimagrimenti miracolosi legati alla scoperta che l'organismo non sopporta certe sostanze. Dalle promesse di operatori non sempre ben documentati, quasi mai sanitari.
Fra di noi ci sono persone serie e meno serie», dichiara Mario Mauro Mariani, docente di omotossicologia e membro del comitato per le medicine non convenzionali. Lui pur utilizzando questi test su cui si fondano le diete alternative, aggiunge, il problema è che si tratta di sistemi difficilmente ripetibili «e comunque un accurato intervento deve basarsi sulla storia clinica del paziente».
L'allergologo Claudio Ortolani parla di tecniche illogiche che costituiscono il pretesto per diete rotatorie: «Si tolgono a rotazione i cibi sospetti. All'inizio in effetti si perde qualche chilo, ma succede lo stesso con i placebo. Poi torna tutto come prima». La nutrizionista Gigliola Braga, non utilizza i test e dichiara: «Di intolleranze non si ingrassa. Per curiosità statistica segno sulla scheda dei miei pazienti se ne hanno fatti. E la maggior parte ci sono cascati ».
Fonte: Corriere della Sera

L’inganno dei test in farmacia
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Intolleranze alimentari: Indagine di Altroconsumo
Gli effetti di un’errata diagnosi: si eliminano inutilmente alimenti importanti per una dieta sana e variata.
Sono proposti in molte farmacie, erboristerie e laboratori privati come metodi in grado di diagnosticare ipersensibilità agli alimenti. Ci siamo sottoposti ai più diffusi. Si risulta sempre intolleranti a qualcosa. Quel che è peggio, danno risultati ogni volta diversi e in contrasto tra di loro. Non hanno alcuna affidabilità.
Cibo: croce e delizia della nostra salute. Da qualunque parte lo si guardi, è sempre un ospite ingombrante. Ci piace immaginarlo come un prezioso alleato al quale spalancare le porte di casa o meglio della nostra dieta (diaita in greco significa anche «dimora», «residenza», oltre che «stile di vita»).
Ma al tempo stesso lo consideriamo un subdolo nemico da cui guardarsi e da tenere in certi casi a distanza. Toccasana o veleni: osanniamo certi alimenti, ne condanniamo altri. Il nostro rapporto con l’alimentazione si è fatto estremo, soffriamo di uno strano disturbo bipolare che ci ha resi cibo-maniacali.
Gonfiore di stomaco? Mal di testa? Prurito? Insonnia? Difficoltà a dimagrire?
Un tempo di fronte a uno o più sintomi del genere si sarebbe ipotizzato un ampio spettro di possibili cause. Un consulto medico ci avrebbe illuminato oppure una sana dormita avrebbe spento ogni ansia (e con essa probabilmente anche i fastidi).
Oggi, nell’era dell’autodiagnosi (magari previa ricerca su Google), l’indiziato numero uno è sempre lui, il cibo. «Forse soffro di intolleranza a qualche alimento o di un’allergia alimentare». È il primo pensiero che viene alla mente. E si è in numerosa (e ipocondriaca) compagnia, perché quello di attribuire i propri sintomi di malessere a intolleranze o allergie alimentari è un esercizio praticato da una persona su quattro.
Mentre le stime dicono che gli alimenti causano davvero problemi in percentuali decisamente minori (3-5%).
Tentati dalla pubblicità
Ma anche di fronte alla consapevolezza di una probabilità così bassa o addirittura in mancanza di sintomi, può diventare forte la tentazione di sottoporsi a quello che si presenta come un innocuo “test per le intolleranze alimentari”, senza neppure passare dal medico. Tentazione che diventa irresistibile se davanti a una farmacia si legge il cartello pubblicitario:
«Intolleranza alimentare? Anche senza saperlo potresti avere una o più intolleranze alimentari. Infatti alcuni cibi possono provocare: mal di testa, dolori allo stomaco, appesantimento nella digestione, depressione, alternanza di peso, eruzione cutanea, alitosi, palpitazioni cardiache…
Per maggiori informazioni o per prenotare l’esame: chiedi qui al tuo farmacista».
Entrare.
Informarsi sul prezzo. Farsi convincere a fare qualcosa di cui in realtà si è già sufficientemente persuasi. Fissare un appuntamento. Fidarsi della farmacia, che ancora consideriamo, checché se ne dica, un presidio sanitario. Sono tutte cose che in quel momento sembra molto saggio mettere in pratica. «Così mi tolgo il pensiero» ci si dice, forse ignorando che non ci si dovrebbe mai sottoporre a un esame diagnostico per mera curiosità.
Perché quasi sicuramente quel dubbio si trasformerà in una certezza. E, quel che è peggio, sarà una certezza tutt’altro che fondata. E vengono in mente le parole dello scrittore satirico Karl Kraus – «una delle malattie più diffuse è la diagnosi» – con le quali ironizzava sugli errori a cui la medicina, la meno esatta tra le scienze, va spesso incontro. Nel nostro caso non si tratta nemmeno di medicina “ufficiale”. Infatti stiamo parlando di “test alternativi” non validati dalla comunità scientifica e sul cui valore diagnostico l’Istituto Superiore di Sanità è stato molto chiaro, bollandoli così: «Sono privi di attendibilità scientifica e non hanno dimostrato efficacia clinica».
Sconfessati dalla scienza
A mettere in guardia da questi test è anche la Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (Siaaic). In un documento disponibile online, cita a titolo di esempio il Vega Test, il Cytotoxic test, il dosaggio delle IgG4 sieriche, l’analisi del capello e le tecniche di biorisonanza. E avverte: «Nessuna di queste metodiche ha dimostrazioni scientifiche di efficacia e ripetibilità nel diagnosticare disturbi legati all’alimentazione». Il motivo per cui sono da evitare è che «fornendo risultati inattendibili e non clinicamente correlabili alle problematiche riportate dai pazienti, pongono i pazienti a rischio di inappropriate diete potenzialmente dannose per la salute». Tradotto in parole più semplici: poiché questi test non danno risultati affidabili e tendono a diagnosticare false intolleranze, le persone finiscono per eliminare senza motivo dalla loro dieta alimenti che non avrebbero alcun bisogno di eliminare, impoverendo la propria alimentazione, con il rischio di squilibri e danni alla salute. Inoltre, aggiungiamo noi, questi test si risolvono in uno spreco di soldi e in una fonte d’ inutile stress.
Un paio di raccomandazioni
A questo punto avremmo potuto già concludere questo articolo, aggiungendo soltanto due raccomandazioni finali. La prima: se non è ancora chiaro, state alla larga dai test per le intolleranze alimentari proposti non solo dalle farmacie, ma anche da parafarmacie, erboristerie e laboratori privati. La seconda: in caso di disturbi che potrebbero far pensare a un’intolleranza alimentare, tipicamente quelli gastrointestinali, non avventuratevi in pratiche di automedicazione, rivolgetevi al vostro medico di base; sarà lui a valutare se è il caso di approfondire, indirizzandovi da un allergologo o da un altro specialista. Noi, invece di fermarci ai consigli, abbiamo preferito andare fino in fondo, con un’inchiesta sul campo.
Siamo andati a sottoporci a questi test, sia per verificare quali esiti danno, sia per poter rispondere con fatti documentati a quanti altrimenti ci avrebbero accusato di denigrare a priori i metodi alternativi, promossi dalle (sempre più popolari) medicine non convenzionali. Affinché gli esiti degli esami fossero tra loro confrontabili, era necessario far fare gli esami sempre alla stessa persona. La scelta è caduta su Chiara, una giovane donna di 25 anni residente a Roma. Chiara accusava realmente sintomi riconducibili a intolleranze alimentari, però non si era mai sottoposta a esami per accertarlo. Il primo passo è stato quindi accompagnare Chiara in una struttura ospedaliera a fare una visita allergologica. Lo specialista ha prima valutato la storia clinica della paziente e, sospettando un’intolleranza al lattosio, l’ha sottoposta a due test diagnostici validati scientificamente: il prick test e il breath test. Il primo è un test cutaneo, durante il quale un estratto dell’alimento sospetto viene posto a contatto con la pelle per vedere quale reazione dà. Il secondo, il test del respiro (in inglese breath), consiste nel far ingerire una dose di lattosio e analizzare mediante un sensore alcuni gas (idrogeno e/o metano) nell’aria espirata: un loro aumento indica che il lattosio non è regolarmente digerito. L’esito degli esami è stato chiaro: la nostra collaboratrice è risultata realmente intollerante al lattosio.
Forti di questa diagnosi, che ha escluso altre forme di allergie alimentari, Chiara ha cominciato a passare in rassegna la nostra lista con quattordici indirizzi di farmacie, erboristerie e laboratori privati di Roma, scelti in modo del tutto casuale, che offrono la possibilità di fare test per le intolleranze alimentari.
Se i risultati sono un rompicapo
Siamo partiti da un esame molto noto, eseguito non da farmacie ma da laboratori privati, il Cytotest. Si tratta di un test che propone di diagnosticare l’intolleranza alimentare osservando le alterazioni dei globuli bianchi a contatto con l’allergene. Per questo serve un piccolo prelievo di sangue. Per poter valutare meglio l’attendibilità dei risultati, Chiara ha eseguito il test due volte, in modo da avere in mano due esiti da confrontare. Lo ha fatto in strutture diverse, per evitare di essere riconosciuta.
A Chiara è stato chiesto di sborsare per il primo test la bellezza di 240 euro, mentre il secondo laboratorio le ha chiesto 150 euro. In entrambi i casi ha dovuto fornire un indirizzo e-mail al quale le sarebbero stati mandati i risultati, che in effetti sono arrivati dopo una decina di giorni. Perché via e-mail? Forse per evitare che i pazienti chiedano di essere illuminati sull’esito degli esami, la cui decifrazione è un vero rompicapo anche per un esperto. Né si può fare affidamento su un commento finale: semplicemente non c’è, il campo è lasciato libero all’interpretazione del paziente. Ciò che si riesce a cogliere, dopo attenta disamina, è che Chiara nel primo caso è risultata positiva (ma senza indicazione del grado di positività) a sette alimenti, mentre nel secondo le intolleranze diventano quattro. Solo la positività al pomodoro è comune ai due documenti, tutte le altre differiscono. Eppure stiamo parlando dello stesso esame, eseguito due volte. Hanno almeno trovato l’intolleranza giusta, quella al lattosio? Macché, non è riuscito nessuno dei due test. Nel primo figurano la lattoalbumina e la caseina, cioè proteine del latte, mentre il lattosio è uno zucchero. Poiché nel primo test è risultata un’intolleranza all’uovo e nell’altro alle proteine del latte, le diete prescritte sono profondamente diverse ed escludono entrambe un importante apporto di proteine e minerali.
Gli anticorpi sbagliati
Siamo poi andati in due farmacie per provare un esame chiamato Finder. Prevede un piccolo prelievo di sangue da un dito con tampone, che nel nostro caso è stato effettuato direttamente dal farmacista (costo: nella prima farmacia 215 euro, nella seconda 175). Il test si basa sulla ricerca nel campione di sangue degli anticorpi IgG contro cibi sospetti (una lista di 184 sostanze). Chiara ha ricevuto i risultati dei due esami cui si era sottoposta direttamente dal farmacista, senza alcun commento. Ancora una volta stessa paziente, medesimo esame ripetuto, esiti discordanti. Uno rileva intolleranza alla mandorla e al formaggio fuso, l’altro al grano e al farro. Entrambi concordano su mandorla, latte di mucca e di pecora. Ciò implica, stando ai consigli dietetici riportati nel referto, l’esclusione totale di latte e latticini, cosa che comporterebbe il rischio di carenze di calcio e vitamina D. Se gli esami avessero diagnosticato il vero problema, l’intolleranza al lattosio, non ci sarebbe stata una preclusione così netta, anzi si sarebbe potuto avere libero accesso al consumo di alcuni prodotti caseari e di tutti quelli delattosati. Anche un altro test, Natrix FIT, si basa sugli stessi principi di Finder, cioè sul fatto che la presenza degli anticorpi IgG specifici nel sangue sarebbe un segnale di allergia o intolleranza alimentare. Le intolleranze individuate da questo salatissimo test (costo: 230 nel primo caso e 250 euro nel secondo, su 184 alimenti), vanno da un minimo di cinque a un massimo di nove, e concordano soltanto per l’uovo e il latte vaccino.
Viaggio nei campi bioenergetici
E ora veniamo ai test più controversi della nostra inchiesta: Creavu Test, Vega Test e Elettroagopuntura di Voll. Poiché si basano tutti sugli stessi principi di bioenergetica, li analizziamo insieme. Sono eseguiti mettendo un apposito macchinario a forma di penna sull’indice (nel punto che in agopuntura corrisponde all’intestino) del paziente. A ciascuno di questi test Chiara si è sottoposta due volte, in diverse farmacie e in un’erboristeria. I costi sono più contenuti: vanno da 20 euro (offerta su Groupon) a 45 euro. La variabilità dei risultati però è elevatissima, fatto che ne conferma l’assoluta inattendibilità. Il caso più assurdo è quello
del test eseguito in erboristeria, dove sono risultate ben 48 incompatibilità su 108 alimenti provati. Ci potrebbe essere stato un errore nell’esecuzione del test — e anche questo la dice lunga —, perché l’esito paradossalmente riporta riferimenti agli anticorpi IgA, senza che ci sia stato un prelievo di sangue: da dove arriverebbero? Confrontando l’esito degli altri cinque test, solo sull’intolleranza al cacao c’è una certa coincidenza (tre test su cinque). Nessuno di loro individua però il vero problema della paziente: l’intolleranza al lattosio. E poi sbuca una categoria inedita: la pre-intolleranza. Cos’è e in quali consigli dietetici si traduce? Poiché nei referti mancano pure i consigli nutrizionali, non è dato saperlo.
Esami da farmacista
D’accordo, il farmacista non è un medico. Però resta un operatore sanitario, che deve agire in scienza e coscienza. Poiché ha il dovere di «adeguare costantemente le proprie conoscenze al progresso scientifico» (art. 9 del codice deontologico) dovrebbe sapere che i test sulle intolleranze alimentari, che pubblicizza, vende ed esegue (il prelievo lo fa lui) sono privi di attendibilità scientifica.
Allora perché molti si prestano al gioco?
«Nell’attività di vendita di prodotti diversi dai medicinali, il farmacista ha l’obbligo di agire in conformità con il ruolo sanitario svolto, nell’interesse della salute del cittadino» (art. 35). Chi vende test del tutto inaffidabili tradisce questi princìpi. Anche il suo comportamento al momento di fare il test fa dubitare della sua correttezza professionale: in molti casi nemmeno una domanda generica su cosa ci avesse spinto a sottoporci al test. Soprattutto, mai domande mirate sui disturbi che accusavamo né sulla nostra storia clinica. Alla consegna dei referti poi fa il semplice passacarte. Nessun commento né spiegazione dei risultati. E nemmeno l’invito a rivolgerci a un medico. Si parla tanto dell’evoluzione del farmacista da dispensatore di farmaci a erogatore di prestazioni professionali, a vantaggio dei cittadini. Se questi sono i presupposti, non c’è da sperare nulla di buono.
Sottoporsi a uno di questi esami fasulli costa da 20 a 250 euro
Sei test “intollerabili”
Cytotest
Si basa sul principio secondo cui l’aggiunta di uno specifico allergene al campione di sangue prelevato al paziente causi alterazioni (citotossicità) di vario grado nei globuli bianchi. È un test inaffidabile perché ha una scarsa riproducibilità.
Finder e Natrix FIT
Consistono nel ricercare nel sangue gli anticorpi IgG e IgG4 verso una lunga serie di alimenti, perché sarebbero un segnale di intolleranza. Da tempo, però, è stato acclarato che la presenza di questi anticorpi è dovuta in realtà solo a una risposta normale e fisiologica del nostro corpo verso elementi estranei.
Creavu Test, Vega Test, Elettroagopuntura di Voll
Si ispirano al principio bioenergetico secondo cui il nostro corpo subirebbe variazioni energetiche quando entra in contatto con sostanze estranee.
Con un apparecchio si misurano in particolare le variazioni micro-elettriche della pelle, a livello dei punti dell’agopuntura (sul dito indice, che corrisponderebbe all’intestino), quando questo viene a contatto con un alimento sospetto.
I test per le intolleranze
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Risultati fasulli
Stesso esame, esiti diversi.
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Esiti assurdi
Con alcuni test vengono diagnosticate numerose incompatibilità.
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Salute a rischio
Eliminare dalla dieta i numerosi alimenti a cui si risulta (falsamente) intolle-
ranti con i vari test, metterebbe a rischio la salute.
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Spesa inutile
Questi esami farlocchi sono spesso molto costosi: si arriva a sborsare fino a 250 euro.
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Consigli sbagliati
In certi casi viene consigliato di eliminare completamente gli alimenti non
tollerati: un consiglio sbagliato perché troppo drastico. In altri casi nessun
consiglio. Difficile decidere quale dei due comportamenti sia peggio.
Fonte: Test Salute Altronsumo

La trappola psicologica delle intolleranze alimentari
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Le intolleranze alimentari?
Spesso una trappola psicologica su cui molti speculano!
Ecco come la pensa il professor Michele Carruba, direttore del Centro Studi e Ricerche sull’Obesità dell’Università degli Studi di Milano.
La medicina ufficiale riconosce le intolleranze alimentari?
“Certo. Le vere intolleranze alimentari hanno però una base biochimica e manifestazioni specifiche ed evidenti. Quelle più diffuse sono due. La prima è l’intolleranza al lattosio, lo zucchero del latte, dovuta alla mancanza di un enzima (la lattasi) necessario a digerirlo. Provoca disturbi intestinali e si scopre con il Breath test (test del respiro), uno strumento diagnostico molto preciso che si esegue in ospedale e dà risultati attendibili. È possibile recuperare la tolleranza evitando per qualche tempo il cibo incriminato per poi riassumerlo a piccole dosi crescenti, così da stimolare l’organismo a produrre l’enzima mancante. L’altra intolleranza riconosciuta è al glutine, sostanza presente nel grano, nell’avena, nell’orzo e nella segale. I disturbi sono ancora una volta intestinali. Chi soffre di celiachia, deve eliminare per sempre, grano e derivati dalla propria tavola”.
Oltre ai cibi a base di lattosio e glutine, è da escludere a priori che un determinato alimento possa causare degli effetti sgradevoli nell’organismo?
“No, non va escluso. Esistono altre intolleranze riconosciute dalla scienza ufficiale, ma sono molto rare. Mi riferisco a quelle verso alcuni additivi, come il glutammato di sodio (presente per esempio nel dado da cucina), la tetrazina (il colorante giallo contenuto nelle bibite), il sodio benzoato (conservante antibatterico e antimuffa usato nell’industria alimentare), i solfiti (conservanti antibatterici presenti nelle insalate industriali e in certi tipi di vino rosso). I sintomi vanno dall’orticaria all’asma. Per riconoscerle si usa il test di scatenamento, che viene eseguito in ospedale: si somministra la sostanza sospetta a dosi crescenti da 5 mg a 500 mg (la dose ingeribile in una giornata) allo scopo di verificare le reazioni dell’organismo”.
Un articolo pubblicato sul Corriere della Sera sostiene che i test per le intolleranze alimentari sono una truffa. È così?
“Il punto è che oggi in troppi speculano su un problema sentito, usando le intolleranze e i test non convenzionali per scopi non scientifici. Mi riferisco in particolare alle diete anti-intolleranze usate per dimagrire che oggi imperversano ovunque. Cosa succede in genere: la donna che ha qualche chilo di troppo, spesso sostenuta dall’amica di turno, si convince di essere intollerante a qualche alimento. Si sottopone allora a uno dei tanti test non convenzionali. E guarda caso risulta sempre positiva a una o più sostanze. Altra cosa strana, gli alimenti incriminati sono sempre i più calorici: pane, pasta, latticini…, è ovvio che eliminandoli, si dimagrisce”.
Allora come mai cosi tante persone “ci cascano”?
“Perché queste terapie fanno leva soprattutto sull’aspetto psicologico, semplificando il problema. L’aspetto psicologico è ancora più importante in caso di sovrappeso. Spesso a “cascarci” sono persone che hanno provato di tutto per dimagrire senza successo e a cui, fa piacere sentire che i chili di troppo non sono colpa loro ma di alimenti che non tollerano”.
Le medicine cosiddette alternative hanno riscosso grande successo negli ultimi anni perché cercano di dare un rime-dio a malesseri molto sentiti nella nostra società. È un segno che la medicina ufficiale non sa più parlare alla gente?
“È così. Questa, è una delle ragioni del successo delle terapie non convenzionali, che hanno sicuramente un approccio più “gentile” rispetto alla medicina ufficiale”.
Cosa risponde allora a chi sostiene che ci sono autorevoli studi scientifici che mettono in correlazione grasso e intolleranza?
“Rispondo molto semplicemente che a me non risulta. L’autorevolezza di uno studio scientifico è data innanzitutto dalla pubblicazione su una rivista qualificata di fama internazionale (Scienze, Nature) e dal giudizio di scienziati che prima della pubblicazione ne giudicano l’accettabilità. Gli stessi dati devono essere riprovati e confermati da altri studiosi. Non mi pare che sia il caso di questi test. Inoltre chi è intollerante a determinati alimenti tende a dimagrire, non certo a ingrassare. Se io dopo aver bevuto il latte, sto male, tenderò a ridurre o addirittura a eliminare quest’alimento. Non crede?”
Come mai allora seguendo le diete anti-intolleranze si dimagrisce?
“Come dicevo prima si può perdere qualche chilo perché vengono eliminati gli alimenti sotto accusa, spesso i più calorici. Attenzione però, perché si tratta di un dimagrimento temporaneo. Quasi sempre terminata la dieta, si riacquista tutto il peso perso. L’unico metodo valido per dimagrire è agire sullo stile di vita, modificandolo. Ovvero imparare a mangiare in maniera intelligente e a muoversi il più possibile. Non ci sono altre soluzioni miracolose”.
Quali sono i rischi per la salute, tagliando gli alimenti sospetti?
“Il primo rischio è adottare una dieta sbilanciata, monotona e priva dei principali nutrienti essenziali. Il secondo è trascurare o sottovalutare altri disturbi che magari non hanno nulla a che vedere con il cibo. Il tutto a un costo che può arrivare anche a 200-300 euro. Non male!”.
L’industria alimentare da anni ormai continua a immettere nel mercato nuove soluzioni per soddisfare il nuovo gusto: additivi, conservanti, coloranti. La scienza dell’alimentazione ufficiale quali strumenti adotta per scongiurare i rischi di queste sostanze?
“Qualsiasi sostanza prima di essere messa in commercio deve essere sottoposta a una serie di sperimentazioni tossicologiche eseguite in varie parti del mondo e valutate da un’autorità sanitaria internazionale super partes. Sarà questa a stabilire la quantità massima giornaliera di questa sostanza, riportando l’indicazione in etichetta”.
Fonte: Silhouette Donna
La bufala dei test d’intolleranze alimentari
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